L’evento luttuoso che nei giorni scorsi ha colpito la Comunità di Taurisano è stato solo l’ultima di una lunga serie di cronache giudiziarie che hanno raccontato di vittime e carnefici delle violenze domestiche.
E di giorno in giorno la conta dei femminicidi cresce, come se un baco invisibile si insinuasse in maniera subdola e silenziosa, nelle vite di persone ordinarie, trascinando la normalità di quelle esistenze in narrazioni buie e piene di solitudine e dolore.
In questi racconti, nei numerosi articoli di giornale che si susseguono, nelle interviste televisive, molto si dice delle ragioni presunte dei gesti estremi e dei contesti sociali, economici e familiari che li hanno alimentati, ma poco o nulla resta, delle macerie emotive che ne conseguono. La morte, infatti, non tocca soltanto la donna che viene uccisa, ma si riverbera, secondo una catena consequenziale, nel più ampio contesto familiare, che diventa il luogo dello smarrimento e dell’incomprensione, del dolore e della solitudine, dell’incertezza del sé e dello sconforto, dell’incredulità e dell’impotenza.
Quell’incredulità e quell’impotenza dei figli e delle figlie di femminicidio, che rimangono orfani e perdono, all’improvviso, la madre, uccisa dalla persona che amavano di più al mondo, e il padre, che a sua volta si uccide, fugge o viene arrestato.
A ciò si aggiunge il dato secondo cui molti di questi bambini sono in una condizione di vulnerabilità preesistente, in quanto, spesso, già vittime di violenza assistita da molti anni: per molti di questi bambini e bambine, infatti, l’omicidio della mamma rappresenta solo il tragico epilogo di una storia familiare caratterizzata da anni di violenza domestica e quindi, già tracciata da solitudini e paure (CISMAI, 2017; Kaplan et al., 2001).
Eppure, subito dopo il femminicidio, i riflettori su queste esistenze interrotte dal trauma, dalla perdita, dal lutto, si spengono improvvisamente e si accende, invece, in maniera morbosa, la descrizione dello stato mentale del presunto reo. Questo, infatti, viene descritto spesso come dispiaciuto, emotivamente provato, sotto shock, qualche volta addirittura disperato. Perché è stato lasciato, perché ha perso il lavoro, perché è pentito… perché è solo. Spesso, ci si lascia andare a semplificazioni grottesche e generalizzazioni sui loro stati mentali, definendoli innamorati o amanti della famiglia, rappresentando come “troppo amore” o “amore malato”, cose che non hanno niente a che fare con l’amore, con la cura, con la protezione.
Eppure, anche questi bambini e queste bambine che hanno perso i genitori, si sono sentiti increduli, smarriti, impauriti, impotenti. Anche loro si sono sentiti disperati.
Eppure, questi bambini, in una volta sola, devono andare incontro contemporaneamente a numerose perdite: il genitore ucciso, l’altro genitore che si suicida, viene detenuto o fugge, il distacco dalla propria abitazione e dai propri oggetti personali.
Perdono la casa, che rimane sotto sequestro anche per mesi, qualche volta si ritrovano a dover vivere in un altro quartiere, magari in un’altra città, in alcuni casi a cambiare scuola, insegnanti e amici.
Devono fare i conti con lo stigma pesante di essere figli di un assassino, che può renderli oggetto di derisione o di atti di bullismo.
Pertanto, una vera lotta contro la violenza di genere parte e si muove da una rivoluzione culturale del modo in cui, ancora oggi, a livello collettivo, politico, culturale, descriviamo e parliamo della violenza contro le donne, come eventi imprevedibili ed isolati. Dovremmo iniziare a prenderci le responsabilità, invece, di una cultura patriarcale che disegna e orienta le nostre vite fin dall’inizio, definendone, spesso, confini e possibilità, e di un’educazione alle parole che abbandoni termini “amore” e “raptus” quando si parla di violenza, una terminologia fuorviante che si configura come offensiva e dolorosa, per nulla rappresentativa di dinamiche dolorose e violente.
D’altronde, uno dei motivi per cui ancora, oggi, ci chiediamo perché le donne non denunciano di fronte a lunghe e gravissime storie di maltrattamento è proprio questo: la paura, la solitudine e il dolore di queste donne di doversi trovare, un giorno, di fronte alla nostra incapacità di comprendere, accogliere e raccontare le loro storie, con tutte le loro complessità.
L’Equipe multidisciplinare integrata contro il maltrattamento e la violenza
Ambito Territoriale Sociale di Casarano